(Rocket Recordings, 2017)
Superata la soglia dei vent’anni di carriera i Julie’s Haircut hanno pubblicato lo scorso 17 febbraio il loro settimo album, e lo hanno fatto per la prima volta per un’etichetta non italiana, dopo aver affidato le uscite precedenti ad alcune delle più prestigiose label indipendenti del nostro paese, su tutte la defunta ma gloriosa Homesleep e la Woodworm. Invocation and Ritual Dance of My Demon Twin esce infatti per la britannica Rocket Recordings, che ha pubblicato nomi piuttosto importanti come gli svedesi Goat e alcuni lavori dei folli newyorkesi Oneida, ma che aveva già pescato in Italia collaborando con alcuni importanti nomi della psichedelia di casa nostra come Ufomammut, Lay Llamas e Mamuthones.
Il nuovo album arriva a quattro anni da Ashram Equinox, e come già quest’ultimo prosegue nella ricerca sonora intrapresa dalla band emiliana dopo aver progressivamente abbandonato la canzone e il garage rock tinto di psichedelia degli esordi, in favore di formule più dilatate, spaziali e free-form, con After Dark, My Sweet del 2006 a fare da spartiacque e a inaugurare il nuovo corso. La musica, un felice caso abbastanza isolato nel panorama italiano, nasce da sessioni di improvvisazione, e viene successivamente scovata nelle registrazioni e riassemblata in studio, un metodo in passato già utilizzato da Miles Davis e dai Can. Anche la lineup della band ha subito negli anni diverse variazioni che hanno accompagnato l’evoluzione sonora del gruppo, e i soli reduci della prima fase sono Nicola Caleffi e Luca Giovanardi, oggi accompagnati da Laura Agnusdei, Andrea Rovacchi, Andrea Scarfone e Ulisse Tramalloni.
A mettere subito in chiaro le cose ci pensa la traccia di apertura “Zukunft”: oltre 11 minuti di motorik e di basso ipnotizzato su un unico giro, su cui tastiere, chitarre e i sassofoni dell’ultima arrivata Laura Agnusdei dipingono scenari interstellari che continuamente accumulano e rilasciano tensione. L’ispirazione viene chiaramente da Düsseldorf e dai magnifici Neu! di Michael Rother e Klaus Dinger, anche se qui i toni sono meno colorati e più oscuri e sinistri.
Si guarda alla Germania degli anni ‘70 anche con la successiva “The Fire Sermon” e con “Salting Traces”, con le loro ossessive partiture di batteria di scuola Can (i Julie’s Haircut hanno collaborato più volte con il loro leggendario frontman Damo Suzuki): la personalità della band emerge fortissima nel curato amalgama di suoni, impreziosito dal bel tocco della voce sussurrata in “The Fire Sermon”, o dalla voce effettata e dagli oscuri e ripetitivi tappeti di tastiere in “Salting Traces” che in qualche modo ricorda le atmosfere dei Dead Skeletons, splendidi rappresentanti della psichedelia islandese contemporanea.
È invece più distesa l’atmosfera di “Orpheus Rising”, con il Fender Rhodes in primo piano, e di “Cycles”, dalle atmosfere più tese e sognanti e costruita sugli arpeggi di un bouzouki, ma c’è spazio anche per momenti più aggressivi, come l’assalto noise di “Deluge”, debitore verso la collaborazione della band con Peter Kember degli Spaceman 3: il brano è un denso mare di chitarre cariche di fuzz, sospinto da una batteria incalzante e decorato dai voli del sassofono, interrotti solo per un momento di atmosferica attesa prima di esplodere nuovamente nel finale. In chiusura del disco sono nuovamente le ambientazioni più ipnotiche e liquide a farla da padrone con il mantra di “Gathering Light” e la conclusiva “Koan”, che contrappone bordoni orientaleggianti a suoni metallici e che ospita la voce di Laura Storchi, membro della band dalla fondazione al 2006.
Invocation and Ritual Dance of My Demon Twin è insomma un album paradossalmente variegato nella sua brama di ripetizione infinita, e per questo decisamente godibile e sempre più convincente ad ogni nuovo ascolto: riesce così ad aggiungere un altro tassello di ottima qualità alla discografia dei Julie’s Haircut, proseguendo nell’interessante e convincente percorso di ricerca sonora intrapreso dalla band da ormai più di dieci anni. A voler indicare qualche difetto si può senz’altro dire che dal punto di vista melodico il disco è poco sviluppato, e sotto questa lente i brani non sono memorabili, ma è pur vero che in questo tipo di musica la melodia è un aspetto messo decisamente in secondo piano. Inoltre le influenze persino troppo esplicite non ne fanno un album particolarmente originale, ma nella sovrabbondanza di band (in Italia e non solo) che a vario titolo, e spesso a sproposito, descrivono la propria musica con l’aggettivo “psichedelica” i Julie’s Haircut sono fra i pochi a farne buon uso con la loro coerenza tranquilla e una storia priva di passi falsi.
Recensione di Andrea Carletti