Riprendiamo la serie delle nostre interviste “da musicista a musicista” con un’artista che abbiamo avuto modo di apprezzare dal vivo durante la serata Musica in Emergenza organizzata da Slowcult al Wishlist Club lo scorso 22 settembre per raccogliere fondi in sostegno delle popolazioni terremotate: Susanna Buffa, giornalista e cantante assai attiva nel campo della ricerca etnomusicologica e dell’impegno sociale. Ci era già capitato di condividere il palco, lo scorso 25 aprile, in occasione di un concerto organizzato dal Comitato di Quartiere di Tor Pignattara al Parco Sangalli, e la sintonia è stata immediata. Assieme ad un’altra ottima musicista e cara amica comune, Stefania Placidi, Susanna ha anche partecipato all’ultima iniziativa organizzata dall’Associazione Ottavo Colle presso il Museo di Porta San Paolo per ricordare Nicola Stame, il “tenore partigiano” ucciso dai nazisti alle Fosse Ardeatine. E tra poco ascolteremo la sua voce nella colonna sonora composta da Teho Teardo per il film La Verità Sta In Cielo di Roberto Faenza sul caso Emanuela Orlandi, nei cinema italiani dal 6 ottobre.
Una strada, quella di Susanna, fatta non solo di impegno civile ma anche di passione, di ricerca rigorosa e decisamente a tutto tondo sulla musica e sulla comunicazione legata alla cultura.
Ciao Susanna: grazie ancora, a nome di tutti noi di Slowcult, per aver accolto con entusiasmo il nostro invito a partecipare alla serata “Musica in Emergenza” in sostegno alle popolazioni terremotate. La nostra chiacchierata parte da qui, dalla tua esperienza ad Accumoli proprio la sera prima che la terra tremasse. Come mai ti trovavi a suonare da quelle parti?
Quel concerto era l’ultimo di una serie di quattro live che io e Stefania Placidi stavamo tenendo da quelle parti in duo. Rispondevamo alla richiesta di una persona molto attiva di Accumoli che ogni anno organizza un concerto nella bellissima chiesa di Santa Maria delle Coste, un posto sperduto in cima a una montagna, sotto i Monti Sibillini. Era stata una bellissima serata e noi abbiamo lasciato Accumoli e quelle splendide persone la sera del 23 agosto, poche ore prima del terremoto. Siamo tornate nella mia casa di famiglia, in un’altra frazione vicina ad Amatrice, ed è lì che il sisma ci ha sorprese. Noi siamo state molto fortunate, non così tutti gli altri.
Qual è il legame tra te e quelle splendide montagne?
I miei genitori e miei nonni sono nati ad Amatrice e quello è il posto dove passo le mie vacanze da quando sono nata. Un tempo ci trascorrevo quattro mesi l’anno, negli ultimi anni solo poche settimane, ma considero quella la mia vera casa, l’unica che esista da quando sono nata. Lì ci sono i miei amici più cari, persone che frequento da quando ero piccolissima. La distruzione che si è impadronita di quel posto e la perdita di tanti amici che conoscevo mi fanno sentire disorientata ancora oggi, a distanza di oltre un mese.
La serata “Musica in Emergenza” ti ha visto sul palco con due progetti assai diversi tra loro: prima in trio assieme a Susanna Ruffini e Stefania Placidi, poi in duo con Marco Machera. Da un folk italiano di tipo tradizionale a un sound decisamente più rock. Come ti sei trovata in questa doppia veste?
Lo switch tra un genere e l’altro è stato meno difficile di quanto pensassi, anche perché le due esibizioni si sono succedute e quindi c’è stato il tempo di porsi il problema. Ho iniziato ad esibirmi con il folk e solo da poco con Marco Machera abbiamo in piedi un progetto che ci appassiona veramente, in trio con Eugenio Valente (noto come Eugene: un musicista, cantante, compositore, tastierista ed esperto di synth davvero prodigioso). Con loro, sotto il moniker di THE BATTS, rendiamo il nostro tributo a David Sylvian, Steve Jansen, Mick Karn e a tutti i progetti e i musicisti che negli anni sono nati attorno alla figura di Sylvian; dai Japan fino a toccare tutti i loro progetti solistici. Persino il nostro nome è un ulteriore omaggio a quei musicisti – il vero cognome di Sylvian e Jansen è Batt. Devo dire però che il mio battesimo del palco, così come la gran parte delle mie esperienze live, sono legati al folk.
Come nasce la tua storia musicale? A quanti anni hai cominciato a suonare?
Ho iniziato suonando il pianoforte da autodidatta a cinque anni; poi sono seguiti diversi anni di studio con due insegnanti e infine, a quindici anni, la fine di tutto per la mia resistenza all’insistenza dei miei affinché prendessi il diploma di solfeggio. Il pianoforte fu venduto all’improvviso e così ebbe termine la mia carriera di pianista. Parallelamente a ciò, sono sempre stata una grande consumatrice di musica; a tredici anni stavo già sveglia di notte per registrare, su un registratore a cassette, le trasmissioni radiofoniche notturne che secondo me passavano la musica più interessante. In ogni caso, ho provato tante esperienze e diversi strumenti ma nulla poteva portarmi a immaginare che un giorno sarei stata cantante: era davvero l’ultima cosa a cui potessi pensare in gioventù.
Negli ultimi 10-15 anni in Italia si è vista una certa rinascita dell’interesse per il folk anche da parte dei musicisti più giovani: tuttavia a mio avviso rimane una certa attitudine a dividere la scena musicale nostrana in compartimenti stagni. Da una parte il pop-mainstream e dall’altra tante piccole nicchie, dall’indie al folk al rock ai cantautori, senza che ci sia una vera possibilità di proporre al grande pubblico una scelta più varia. Tu cosa ne pensi? Sarà mai possibile abbattere questi steccati ideologici?
I recinti sono la piaga del mondo musicale italiano – comprendendo in esso sia quello dei fruitori di musica, sia quello della gran parte dei musicisti. Complice la stampa specializzata, ovviamente – e mi ci metto anch’io come giornalista, poiché noto che i colleghi preferiscono aver davanti un prodotto facilmente classificabile anziché un crossover o qualcosa che esuli dalle definizioni più comuni. Di conseguenza, in Italia è difficile sia proporre musica inclassificabile, sia fruirne, perchè le radio e le TV non la passano e la stampa non ne parla. D’altro canto è anche vero che il web permette a tutti i volenterosi di informarsi su ciò che esce, quindi la scarsa promozione di buona musica non classificabile non può più essere un alibi. Siamo un popolo mediamente pigro sotto questo punto di vista; non amiamo sforzarci di cercare e così facendo rinunciamo a molte cose buone e perdiamo di vista la visione globale dell’offerta musicale.
Questo rinnovato interesse per il folk è una cosa che mi fa piacere: in genere questa è musica che circola nella società civile e l’idea che esista ancora una società civile propriamente detta ovviamente mi fa felice. Va detto che anche il folk viene rinchiuso in recinti e considerato musica di nicchia; questo si paga. Se si pensa a quello che succede, ad esempio, negli Stati Uniti con il country-folk-nation, ci si rende conto di quanto questa ottusità danneggi la vecchia Europa e l’Italia in particolare. In America il folk è musica di larghissimo consumo da due secoli a questa parte e abbraccia un target molto eterogeneo; qui è tutto assai diverso ma, come ripeto, la scarsità di investimenti da parte degli operatori del settore e la pigrizia del pubblico hanno il loro peso.
Oltre a essere musicista, sei anche giornalista, musicologa e studiosa della tradizione umbra: in più, ti occupi di radio, con la tua rubrica Folktrip su Radio ARA. Come vedi la situazione culturale in Italia in questo momento?
Dal mio punto di vista, in Italia il problema è nella mancanza totale di un’industria culturale. La cultura – e la musica nello specifico – non creano un indotto che abbia una portata equiparabile al grandissimo valore della stessa proposta culturale. Siamo nel Paese delle arti e credo sia sotto gli occhi di tutti lo stato di conservazione, cura e promozione del nostro patrimonio artistico e culturale. La cultura può produrre lavoro, può anche produrre un welfare che includa una autentica tutela previdenziale per gli artisti, così come avviene in molte nazioni anche a noi vicine come la Francia, che pure vive un momento di crisi ma che resta un modello molto progredito di gestione delle risorse umane in campo artistico.
E per la città di Roma, sempre dal punto di vista culturale, che futuro vorresti?
Roma è in se stessa un’opera d’arte ed avrebbe solo bisogno di una gestione oculata delle risorse e di maggior attenzione nei confronti di coloro che ogni giorno si spendono per produrre un’offerta culturale. Mi riferisco soprattutto al sottobosco di piccole associazioni culturali che si dannano per sopravvivere e che si spendono il più delle volte gratuitamente, per passione. Su di esse si regge la gran parte dell’offerta culturale della capitale, laddove i grandi enti latitano totalmente. Basta guardare cosa sta accadendo nelle grandi strutture e in centri culturali come il MAXXI o l’Auditorium Parco della Musica, che sono ormai ridotti a luoghi in cui manca una programmazione organica e dove si affittano le sale ai migliori offerenti, senza alcuna selezione della proposta. E basta anche guardare cosa è accaduto invece alla miriade di centri culturali autogestiti o di minore importanza che invece producevano cultura quotidianamente e che erano punti di riferimento per i cittadini, ora sgomberati o chiusi – dal Circolo degli Artisti al Cinema America, al Teatro Valle, solo per nominare i più noti, ma in ogni Municipio ve ne sono.
Le piccole realtà, nonostante tutto, hanno dimostrato di saper sviluppare una capacità di resistenza e un’energia che danno dei punti alle grandi strutture. Quello che vorrei è un futuro in cui chi opera in questo settore sia sostenuto e non ostacolato.
Una delle cose che ho più apprezzato della serata Slowcult è stata la massiccia presenza di artiste donne. Sarà una mia fissazione ma sono convinta che le musiciste in Italia facciano ancora molta fatica a trovare spazio. Tu cosa ne pensi? Qual è la tua esperienza in questo senso?
Penso anch’io che ci siano ancora difficoltà nell’accettare una figura femminile autonoma e imprenditrice di se stessa in ambito culturale e musicale, anche se trovo che la situazione sia migliorata. Nel mondo del folk per fortuna non ho ravvisato il fenomeno in maniera tanto grave quanto, ad esempio, nel mondo del rock dove le formazioni al femminile sono state – e spesso sono ancora – discriminate.
Qual è la tua “dieta musicale”? Ascolti di tutto, hai periodi di monomania in cui ascolti lo stesso disco o la stessa canzone trenta volte al giorno (come capita alla sottoscritta), hai dei generi o delle band che usi come “antistress”?
Ho le mie monomanie e in genere sono forme assai gravi. In generale ascolto musica molto diversa da quella che faccio, questa è la prima cosa che posso dire. La musica elettronica è il mio primo interesse anche se negli ultimi dieci anni va di pari passo con il folk di matrice britannica degli anni ’60 e ’70 che, soprattutto per vocalità e patrimonio melodico, mi cattura completamente. Ogni giorno consumo la mia buona dose di folk, anche americano: Robbie Basho, Bert Jansch, Shirley Collins; ho una passione per la deriva psichedelica del folk inglese, soprattutto per i Trees. Al contempo ogni mattina al risveglio mi dedico alle nuove uscite, in maniera forse compulsiva, me ne rendo conto, ma faccio ascolti di dischi nuovi quotidianamente e non saprei immaginare un inizio di giornata differente. Negli ultimi mesi ho molto ascoltato l’album di outtakes degli Arab Strap, che trovo straordinario; e poi ancora “Tender Extinction” che è l’ultimo lavoro inedito di Steve Jansen, uscito in primavera, e seguo sempre con molto interesse la scena house-techno europea.
Quali consigli daresti a un giovane musicista alle prime armi? Emigrare immediatamente o attrezzarsi per poter combattere al meglio nella “giungla” italiana?
Attrezzarsi per essere in grado di combattere è una cosa da consigliare, a prescindere dal territorio in cui si decida di agire – penso che anche all’estero un musicista agli esordi incontri le sue difficoltà.
Che progetti hai in cantiere per i prossimi mesi?
Per cominciare spero di continuare a collaborare con Marco Machera ed Eugene al progetto THE BATTS; abbiamo avuto degli ottimi feedback dagli ex componenti dei Japan e questo ci sprona a proseguire. Da poco ho iniziato a scrivere testi di canzoni e a scrivere arrangiamenti vocali di brani della tradizione popolare orale italiana del cento Italia per il trio FIORDISPINA, di cui faccio parte insieme a Nora Tigges e Sara Marchesi. Sono poi inserita in un progetto di Sandro Portelli che si chiama Calendario Civile e che ripercorre la nostra storia seguendo tappe segnate da date collegate ad eventi civili importanti per la società italiana dell’ultimo secolo. Avrei anche un sogno, che è quello di registrare un album di canzoni per voce ed organo, ma per l’appunto si tratta solo di un sogno, ancora ben lontano dal potersi chiamare “progetto”.
Intervista di Ludovica Valori