Come da parecchi anni a questa parte, ci piace accompagnare la pausa ferragostana con una selezione di album ed artisti che a nostro parere meritano un ascolto più approfondito ed attento, consentito dal maggior tempo a disposizione in questi giorni di riposo.
La redazione di Slowcult augura a tutti buon Ferragosto!!!
Claudia Giacinti consiglia:
Pearl Jam – No code (Epic Records 1996)
Ed eccomi a rimestare nel passato per segnalare un album che, con i suoi vent’anni appena compiuti, nonostante nel mio immaginario continui a considerare i Pearl Jam un gruppo “giovane”, mi riporta alla dura realtà: giovani non sono, così come non lo è quest’album e soprattutto come non lo è più nemmeno la sottoscritta! No Code, lo spartiacque tra la trilogia degli esordi del gruppo di Seattle e i lavori successivi. Il disco che coraggiosamente apre altre strade rispetto a quella maestra, tracciata nei solchi di un grunge di cui i nostri sono stati indiscutibilmente un gruppo cardine. E quindi il coraggio di discostarsi alla ricerca di sonorità meno legate agli stereotipi del movimento va riconosciuta a questo quarto lavoro in studio, datato Agosto 1996 e non apprezzato nell’immediato dai fan proprio perché spiazzati dal mix di generi che caratterizzano i brani e che ad un primo ascolto fanno sembrare il tutto senza omogeneità, mentre nel complesso è un album completo, senza cali di tensione ed egregiamente interpretato da tutti gli attori in causa. La voce di Vedder spazia tra ballate malinconiche di rara bellezza come “Present Tense” e “Off He Goes”, contrapposte a veri e propri inni al punk quali “Habit”, “Mankind” e “Lukin”. Il tutto confezionato in un artwork ricercato, con le suggestive polaroid che racchiudono in scatti random le liriche di quello che, col senno di poi, rimane uno dei lavori imprescindibili del gruppo.
Giulio Crestini consiglia:
Colin Stetson And Sarah Neufeld: Never were the way she was (Constellation, 2015)
Chi mi conosce sa della mia passione per la musica di Colin Stetson e penserà che è una scelta scontata. E’ vero! Ma vuole essere un piccolo risarcimento per la mancata recensione alla sua uscita. Come da consueta abitudine è registrato in studio dal vivo, senza nessun aggiustamento in fase di produzione, Never were the way she was è un bellissimo lavoro apparentemente semplice ma in realta complesso, intelligente, ricco di intensità poetica ed emotiva, struggente, dove i due strumenti dialogano in continuo contrasto sonoro, con il sorprendente risultato di una perfetta armonia. Per me è un disco fondamentale e spero che le sue atmosfere possano affascinare anche voi.
Fabrizio Forno consiglia:
The Big Chill – Original Soundtrack (Tamla Motown, 1983)
Che bello poter in un colpo solo parlare di musica e cinema! Al regista Lawrence Kasdan, tra i principali film-makers della nuova Hollywood a cavallo tra ’80 e ’90, evidentemente piaceva vincere facile, avendo selezionato tra gli altri Marvin Gaye, Temptations, Smokey Robinson & the Miracles, Aretha Franklin, quale colonna sonora (forse a volte troppo didascalica, ma di sicura presa) de Il Grande Freddo, film dal cast totalmente composto da future star: da Glenn Close a Jeff Goldblum, da Kevin Kline a William Hurt, per non tacere di un quasi esordiente Kevin Kostner, le cui scene furono poi tagliate in montaggio. Manifesto di una generazione, quella dei giovani bianchi americani del sessantotto, alle prese con le disillusioni, il disincanto e le contraddizioni delle loro vite da adulti, dopo aver per anni sognato la rivoluzione o, almeno, un mondo migliore.
Di certo qui si trovano elencati alcuni dei brani più importanti di R&B della seconda metà degli anni sessanta; un vero Bignami, non proprio un’enciclopedia, ma sufficiente non solo ad entusiasmare l’ascoltatore (e lo spettatore), ma a fornirgli gli elementi base per un successivo approfondimento della materia Black Music (e non solo) dell’epoca.
Per restare al nome della nostra rubrica, possiamo considerare quest’album il tassello di un ottimo cocomero, un assaggio gustoso e goloso di un universo musicale ben più ampio ed articolato, rappresentato dall’intero catalogo Tamla Motown, Stax e Atlantic, che può portare l’ascoltatore all’approccio verso altri artisti, non presenti in questa compilation, come Sam&Dave, Otis Redding, Wilson Pickett, Isaac Hayes e compagnia cantante.
Insieme a The Blues Brothers (più celebre ma inflazionato) la Colonna Sonora in maiuscolo del Rhythm&Blues di qualità. Una colonna sonora memorabile per un film che fece epoca; la musica ha retto meglio all’usura del tempo. I brani proposti non hanno perso smalto, mentre invece il film, per quanto affronti tematiche ancora attuali, risulta dal linguaggio cinematografico ormai un po’ datato.
Ludovica Valori consiglia:
Joy Division – Atmposphere (Sordide Sentimental, 1980)
Nulla di più lontano dalla canonica idea di disco per l’estate di questo Atmosphere dei Joy Division, uscito come singolo nel marzo 1980 – pochi mesi prima del suicidio di Ian Curtis – e destinato in origine al solo pubblico francese.
Eppure la potenza di questo brano, la forza poetica del testo, il suono che già precorre la new wave degli anni a venire fanno sì che non ci si stanchi mai di riascoltarlo, magari nella penombra, in casa, con le persiane chiuse per combattere la canicola, o in auto al ritorno da un concerto, sul finire della notte. Una canzone che come un fiume sotterraneo ha percorso più di tre decenni senza invecchiare. Degna di nota anche la versione di Peter Murphy (che avremo occasione di vedere in concerto il prossimo novembre a Roma) assieme a Trent Reznor, registrata nel 2006.
Fabrizio 82 consiglia:
Banda Osiris – il cinema di Matteo Garrone (Radio Fandango 2005)
Difficile ipotizzare in ambito nazionale un connubio cinematografico-musicale maggiormente compiuto del binomio Matteo Garrone e Banda Osiris: l’eccellente compilation Banda Osiris – Il cinema di Matteo Garrone rende alla perfezione l’idea, mostrando il percorso pluriennale che ha visto il complesso affiancare le proposte del regista romano fin dall’esordio di Ospiti. Nota ai più per le comparsate televisive goliardiche, la Banda Osiris rappresenta in realtà un raffinato ensemble di musicisti in grado di comporre musica di elevata qualità, dimostrandosi perfettamente in parte nell’enfatizzare le tematiche problematiche e complesse dei personaggi che pervadono i film di un cineasta contorto come Garrone. Oltre allo stesso Ospiti ed al successivo Estate romana, le composizioni della Banda raggiungono la vetta nelle soundtrack de L’imbalsamatore e di Primo Amore, un dittico di film simili ma nel contempo diversi che, anche grazie agli interventi jazzati e melanconici dei musicisti, disegnano la quadra perfetta tra immagine e messaggio, grazie alle collaborazioni eccellenti di Enrico Rava, ma anche di Stefano Bollani e Petra Magoni. I brani sono brevi, ma colpiscono immediatamente per concisione e pulizia, acquisendo un significato ancor più permeante se associate alle intenzioni del regista, mai banale e foriero di un’idea di cinema sofferta e venata da un esistenzialismo pessimistico e raramente conciliante. L’apertura affidata alla voce di Pacifico e della sua Cercando l’oro è una piccola gemma, perfetta per instradare l’ascoltatore nel percorso della Banda Osiris, preludendo ad un disco realizzato con cura e discrezione, raggiungendo un risultato di assoluta qualità scevro da qualsiasi banalità.
Dark Rider consiglia:
Sophia: As We Make Our Way (Unknown Harbors), 2016, The Flower Shop/PIAS
Il progetto Sophia di Robin Propher Shepard è ventennale, le sue struggenti canzoni, introspettive e profonde sono una caratteristica dell’indie/alternative rock più maturo e suggestivo. Il frontman di San Diego, londinese di adozione, dette vita prima di questo ensemble al progetto seminale The God Machine, un gruppo di culto dal sound maestoso, caratterizzato da distorsioni e feedback, che contaminava metal e post punk, noise, psichedelia in una armonia di suoni dal gotico incedere. L’ensemble fu sciolto nel ’95, a seguito della morte del bassista Jimmy Fernandez e purtroppo le sue opere sono da tempo irrintracciabili su vinile o cd.
Ogni opera di Sophia, comunque, il nuovo progetto del musicista, rifulge di un qualche suo fascino, derivante da piccole autentiche gemme sonore.
L’ultimo album, “As We Make Our Way (Unknown Harbours)”, uscito recentemente, rinnova il fascinoso cantautorato esistenzialista dell’Autore, che è sempre più rivolto alle proprie relazioni personali, al suo vissuto, muovendosi tra desolanti confessioni di solitudine e impotenza e malinconiche, avvolgenti ballate dai tratti lisergici.
Il brano “Resisting”, che sembra preso dai Mogwai, ma che in realtà è caratterizzato da un muro del suono che ricorda da vicino le sinfonie aspre di The God Machine, parla della ribellione interiore che non consente il pieno abbandono ai propri sentimenti, quasi suggerendo che solamente un cambiamento, nel senso di una consapevolezza del sé di qualità buddista zen, può consentire di contrastare la sofferenza e l’inquietudine.
L’album è pervaso da dolci, malinconiche, poetiche ballate, tutte incentrate sul disagio di vivere, sulla difficoltà delle relazione, sull’Amore che fugge, o che si teme di riconoscere, (“Don’t Ask”, “Blame”), o sul senso di solitudine interiore (“It’s Easy to be Lonely”). Altre come “California”, un brano più “sociale”, arioso, solare, esprime ironia nei confronti del modo di vivere permeato di fitness e falsa accoglienza e condivisione dei problemi, ma che nasconde in realtà un profondo egoismo e la valutazione dei rapporti umani solo in funzione del denaro (si potrebbe pensare, a questo proposito, al grande film di Altman,” America Oggi”, che descriveva mirabilmente tale clima sociale a Los Angeles).
“ You Say It’s Alright” ha tastiere fortemente ipnotiche, una sorta di reiterazione che ricorda certa new wave epica degli anni ottanta, cupa e ossessiva.
“The Drifter” esprime questa deriva esistenziale, il male di vivere, la perdita di sé, ed è avvolgente, con chitarre sognanti, che sembrano perdersi nell’infinito. Non a caso l’artista ha scelto una copertina che rappresenta un’ancora luminosa, un richiamo da un “porto sconosciuto”, come recita il sottotitolo dell’album, che può rappresentare la salvezza.
Chitarre avvolgenti, profonde, malinconiche, intrise di un intenso lirismo, mentre Proper-Shepard esprime un canto ora drammaticamente evocativo, ora pacato, ma sempre originale: l’insieme determina un suono solenne e suggestivo, corredato da tastiere soffuse, che in certi momenti ricorda i brani struggenti, evocativi del compianto Adrian Borland e dei suoi “The Sound”.
Anche se, probabilmente, nel complesso, l’opera risulta meno intensa ed ispirata di alcune precedenti di Sophia, come “Technology Won’t Save Us” o “People are Like Seasons”, si tratta comunque, in ogni caso, di alta scuola.
Federico consiglia:
Matching Mole : Matching Mole (CBS 1972)
Il 4 settembre 1971 un articolo sul Melody Maker annuncia la fuoriuscita di Robert Wyatt dai Soft Machine. La situazione nella band allargata ormai a quartetto (Wyatt-Ratledge-Hopper-Dean) era diventata davvero insostenibile per Robert, impossibilitato a portare avanti un’ idea di musica che sembrava trovarsi agli antipodi rispetto agli altri tre compagni, vogliosi di esplorare gli spazi (apparantemente) infiniti del free jazz strumentale più radicale. Una separazione dolorosa per Wyatt, che lo porta a sprofondare in una cupa depressione, culminata in un tentativo di suicidio. Anno horribilis, colmo di dolori e delusioni, ma che non riesce fortunatamente a reprimere la sua inarrestabile e iperattiva vena artistica: affittando un appartamento adibito a dormitorio e a sala prove, Wyatt si circonda di amici fraterni e in poco più di due mesi il primo disco omonimo della sua nuova band, Matching Mole (un gioco di parole derivato dalla traduzione francese di Soft Machine) è pronto. Il trittico di canzoni iniziali rimane forse ancora oggi la massima espressione pop di Robert Wyatt, a partire dall’iniziale “O Caroline”, scritta assieme a David Sinclair e registrata nell’arco di una notte, fino ad arrivare a “Signed Curtain”, “la canzone pop terminale” per usare le parole dell’autore. Il suo canto è finalmente libero di spaziare e mostrarsi in tutta la sua toccante fragilità, per troppo tempo intrappolato e represso dai compagni di viaggio precedenti. Ma certamente il suo incredibile talento percussivo non tarda a farsi strada nei solchi del disco, introdotto dalla strumentale “Part of the Dance”, preludio a una seconda facciata priva di liriche dove è l’improvvisazione a farla da padrone. I richiami all’esperienza dei Soft Machine tornano prepotentemente alla ribalta, ma completamente depurati di ogni intellettualismo e fredezza. E sa da un lato l’affiatamento dei Matching Mole appare meno efficace rispetto a quello di musicisti più navigati quali i Soft Machine, dall’altro l’immediatezza e la spontaneità emergono con molta più forza rispetto a qualsiasi produzione successiva di Ratledge e compagni. Una nuova rinascita per Robert Wyatt, confermata dalla pubblicazione del bellissimo secondo album “Little Red Record”: ma inaspettatamente, nell’ottobre del 1972, proprio quando l’interesse nei confronti della band stava iniziando a maturare, Wyatt decide di scogliere il progetto, spaventato del suo ruolo di leader e dubbioso se continuare o no a dedicarsi alla musica. Una paura che fortunatamente scompare dai suoi pensieri, lasciando invece spazio alle nuove composizioni che andranno a formare, dopo l’incidente che lo colpirà il 1 giugno 1973, il capolavoro “Rock Bottom”.
Andrea Carletti consiglia:
Ulver – Childhood’s End (Lost & Found From The Age Of Aquarius)
(2012, Kscope)
Una celebrazione dell’infanzia del rock, quando c’era ancora tutto da dire, quando le prime sperimentazioni scrutavano l’inesplorato e le prime ingenue ma vere velleità artistiche aggiungevano spessore e contenuti. La seconda metà degli anni ‘60 fu (anche) un’esplosione psichedelica, con una miriade di gruppi impegnati in una personale ricerca delle porte della percezione. Gli Ulver, straordinaria band norvegese guidata da Kristoffer Rygg, rendono omaggio a questa epoca di innocenza e di scoperte rivisitando sedici brani, praticamente tutti editi tra il 1966 e il 1969, di altrettante band inglesi e americane per lo più semisconosciute.
Ci si può chiedere come potesse approcciarsi ad un sound così colorato un gruppo che quasi vent’anni prima si era affacciato al mondo con una strepitosa trilogia di album di black metal a tinte folk, e aveva poi proseguito su una strada personalissima che del black metal aveva mantenuto solo le tonalità oscure e solenni, muovendosi con grande eclettismo fra elettronica, ambient, progressive, musica da camera e molto altro. Ebbene, gli Ulver riescono nell’ impresa di incorporare coerentemente il caleidoscopio di questi brani nel loro suono, rispettando gli arrangiamenti originali, ma senza mai nascondere la loro personalità nell’interpretazione.
Non mancano episodi noti. Nella dolce “Today” e nella delicata “Everybody’s Been Burned” si realizza l’inimmaginabile corto circuito che mette insieme alcuni tra i massimi rappresentanti della Summer of Love e uno come Kristoffer Rygg, che viene dal black metal (si faceva chiamare Garm): la prima proviene da quel “Surrealistic Pillow” che impose i Jefferson Airplane tra le band più importanti della West Coast americana che andava verso Woodstock, mentre c’è l’inconfondibile firma di David Crosby (all’epoca nei The Byrds) in calce alla seconda. Sono più aspri e vicini al garage i suoni della sequenza centrale che affianca “I Had Too Much To Dream (Last Night)” dei The Electric Prunes, “Street Song” dei 13th Floor Elevators e “66-5-4-3-2-1” dei The Troggs, mentre la sognante “Bracelets of Fingers” che apre il disco viene pescata dallo splendido “S. F. Sorrow” dei The Pretty Things, uno dei primissimi concept album della storia.
Ma il vero merito di questo lavoro degli Ulver è quello di ridare splendore a delle gemme forse dimenticate: ecco quindi le sfolgoranti melodie di “The Trap” dei The Music Machine e “In The Past” dei We The People, il viaggio siderale di “Can You Travel In The Dark Alone” dei Gandalf e l’eterea meraviglia delle quasi completamente acustiche “Dark Is The Bark” dei The Left Banke e “Magic Hollow” dei The Beau Brummels. Ci si lascia poi cullare dai suoni placidi e liquidi di “Soon There’ll Be Thunder” dei The Common People, “Velvet Sunsets” dei The Music Emporium e “Lament Of The Astral Cowboy” di Curt Boettcher (unico “intruso” della raccolta essendo datato 1973), prima di elevarsi verso il cielo con la solennità di “I Can See The Light” dei Les Fleur de Lys e di “Where Is Yesterday” dei The United States Of America.
Quarant’anni dopo “Nuggets”, la magnifica raccolta curata da Lenny Kaye (poi chitarrista del Patti Smith Group) che a tanti rivelò la mole di buona musica conservata negli scaffali più nascosti dei tardi anni Sessanta,gli Ulver rimettono quella musica sotto la loro personale lente di ingrandimento, realizzando un album di assoluto valore tanto filologico quanto artistico. Il consiglio è ovviamente quello di ascoltarlo e poi andare a recuperare gli altrettanto splendidi originali.