Mardi Gras: Playground:Aerostella/ E.Team, 2015
I Mardi Gras sono un’ensemble romano di sei elementi, autori di un “classic rock” suggestivo e trascinante, dotato di notevoli qualità tecniche; la loro mente ed il loro cuore sono nel mondo anglosassone, nelle “highways” americane, nelle città inglesi del sound beatlesiano, nelle meravigliose distese d’erba irlandesi, dove vive la grande tradizione del folk celtico.
Non a caso prendono il nome anche dall’ultimo album dei Creedence Clearwater Revival, mitica band americana dei sessanta. Sono degli “storytellers”, sospesi tra privato e sociale, appassionati, che narrano le vicende dell’esistenza umana, del suo spirito, delle sue speranze, del suo dolore.
L’ensemble realizza una musica poliedrica, affascinante, fortemente emozionale, nei suoi momenti migliori, che proviene dall’amore per le splendide invenzioni poetiche e musicali di Dylan, per le dolenti ballate di Springsteen, nonché dai suoni epici dell’Irlanda dei Waterboys, e che sa unire sapientemente dolcezza elegiaca e ritmo metropolitano, passione ed introspezione, con un tuffo negli anni settanta ed ottanta, quando Jackson Browne componeva le sue migliori ballate, e Tom Petty si faceva conoscere con il suo rock epico e trascinante.
Questo terzo album da loro realizzato, “Playground” è il segno della loro maturità compositiva, e non a caso è stato masterizzato nei mitici studi di Abbey Road da Simon Gibson.
Tra le band indipendenti italiane bisogna rilevare che i Mardies hanno già ottenuto notevole visibilità internazionale partecipando, nel 2012, al prestigioso festival di Sziget vicino Budapest, mentre persino Neil Young ha ospitato sul suo sito “Songs of the Time” due brani di protesta della band, uno “The Wait” contro la pena di morte e l’altro “Scarecrow in the Snow” sulla paura del diverso che certi politici utilizzano cinicamente a fini elettorali.
Effettivamente, il percorso della band non inizia oggi: già il precedente album “Among the Streams”, caratterizzato da un folk rock solare ed immaginifico (dove un brano, cui partecipava il musicista irlandese Liam O’ Maonlai, “Men improve with the years”, memorabile, richiamava la poesia di William Butler Yeats), aveva raccolto le attenzioni della critica specializzata, soprattutto per aver messo in campo un “sound” molto poco usuale nel nostro paese.
L’ensemble si caratterizza per una dimensione fortemente autoriale, dove una creazione musicale intensa ed appassionata rivela una forte attenzione ai ritmi della natura ed alle stagioni della vita. Dal vivo esprime una energia trascinante e positiva, con un cantato avvolgente ed una ricerca di sonorità nitide e coinvolgenti. Ci capitò di assistere, anche ad un concerto in dimensione “acustica”, prettamente folk, eseguito mirabilmente. Certamente, la band si caratterizza per una eterogeneità notevole di stili e generi musicali, comunque riferibili a forme di puro “classic rock”, e questo è senza dubbio un segno di ricchezza e di creatività. Ma, a nostro parere, la ricerca della perfezione tecnica a volte diventa il suo limite, evidenziando una qualche ridondanza strumentale, ed una qualche indulgenza di troppo ad un “pop” a volte un po’ mieloso e comunque di maniera; ciononostante, va detto che il sound è generalmente genuino ed originale, sanguigno e potente, ed è in grado di coinvolgere fortemente l’audience.
Dal punto di vista tematico, “Playground”, che evoca lo spazio aperto, il campo di giochi dei bambini, o un posto dove gli adulti possano rivivere il loro passato, riflettendo sulla propria vita, costituisce un sofferto, pensoso inno all’ottimismo ed alla volontà creativa.
A questo proposito, rendiamo testimonianza dei brani che ci colpiscono maggiormente: l’album inizia con l’avvolgente, emozionale brano “I Say yes”, introdotto da un magnifico riff chitarristico, un inno ad una nuova vita che nasce, che incontra subito le prime gioie e le prime difficoltà, la rabbia, il dolore, in un divenire in cui l’individuo lentamente si forma e si apre alle molteplici esperienze dell’esistenza.
“Road song”, con il “songwriter” irlandese Mundy, è una ballad tipicamente folk, avvolgente, triste e malinconica, fortemente emozionale, dove una coppia fa i conti con il proprio fallimento esistenziale, ma, lasciate indietro le macerie, ritrova la volontà di percorrere la sua strada per approdare a nuovi lidi e vivere una nuova vita.
In “Another place” una donna scrive al proprio uomo chiamato alle armi, inducendolo a non perdere fiducia in sé stesso, ed a non rinunciare alla sua crescita spirituale, anche in senso religioso, mentre “Before I die”, caratterizzata da una autentica vena melodica, ove voce e piano sono in evidenza, che riflette pathos ed invenzione poetica, è la testimonianza di un uomo anziano, che sentendo vicina la morte, compie un bilancio della vita passata, ricorda la sua infanzia, i suoi sogni, l’amore che ha dato ed ha ricevuto, la strada percorsa e la polvere delle sue scarpe.
Di grande suggestione, sulla medesima linea, intrisa di intenso lirismo, anche “Sarah and the three roses”: una ragazza si trova di notte sulla spiaggia, da sola, ha un tatuaggio sul braccio, ove è scritta la sua concezione della vita e possiede tre rose, che raffigurano i suoi sentimenti di donna: Abbandonerà la vita o troverà una nuova strada da percorrere, forse una rinascita?
La bellissima, trascinante “Are we ready for the sun”, brano tipicamente “rock”, parte dal famoso, appassionato discorso sul destino della terra pronunciato dalla dodicenne Severn Cullis Suzuky nel 1992 al Rio Earth Summit, che colpì ed emozionò il mondo intero, per porsi gli eterni interrogativi sull’immediato futuro, sul destino del pianeta, dell’ambiente in cui viviamo. Qualora esso si rivelasse veramente in pericolo, il nostro pensiero, come quello infantile, si rivolgerebbe alle persone amate, a chi vorremmo avere vicino, con cui vorremmo condividere le nostre paure e cercare una possibile via di salvezza.
L’epica, evocativa “Snakes and bones” nasce tra Dublino e Roma, dalla visione di “The Book Of Kells” al Trinity College, un mirabile manoscritto del VI secolo d.c., tramandato dai monaci irlandesi, raffigurante la storia dei vangeli, scritto in latino, accompagnato da note introduttive ed esplicative, e che contiene illustrazioni e miniature colorate estremamente suggestive; dalla sua simbologia meravigliosa ed arcana, il serpente che cambia pelle viene visto come simbolo di Gesù che risorge, per significare che dalle ceneri di un amore forse morto, può rinascere una nuova speranza.
Citiamo anche la bellissima, oscura, drammatica “Kiss the night” ove si affronta il tema della violenza sulle donne, espressa sia in forma psicologica che fisica: una donna racconta in prima persona le sue paure, le sue emozioni spezzate, le prevaricazioni subite dal compagno con il quale ci si vorrebbe poter abbandonare fiduciosi, e che invece si rivela un oppressore.
Tematiche esistenziali, coinvolgenti, soprattutto indirizzate alla perdita ed alla rinascita dell’amore, al destino della natura ed alla drammatica bellezza della ricerca del senso della vita, indubbiamente di notevole spessore, fanno di questo album dei Mardi Gras un esempio non autoreferenziale di “songwriting autoriale”, per una volta non caratterizzato da nichilismo modaiolo, che unisce tale aspetto ad un “sound” avvolgente, ricco, fluido ed appassionato, tecnicamente ineccepibile, che fa ben sperare per il futuro di questa band, soprattutto se essa non perderà le sue radici “folk rock”, che costituiscono la sua anima, e che comunque per sua natura potrà raccogliere consensi (peraltro già ampiamente ottenuti in una recente tournèe irlandese) prevalentemente nel mondo anglosassone dove il suo cuore e la sua mente risiedono da sempre.
Recensione di Dark Rider