Mia madre, di Nanni Moretti con: Margherita Buy, Nanni Moretti, John Turturro, Giulia Lazzarini, Beatrice Mancini, Stefano Abbati. Durata 106 min, Italia, Francia, Germania 2015
Margherita, regista cinematografica alle prese con la (difficile) realizzazione di un film sui tagli nel mondo del lavoro, è costretta parallelamente ad affrontare, assieme al fratello Giovanni, la malattia della (non troppo) vetusta madre. Sui binari della propria coscienza, le giornate trascorrono a scartamento ridotto, tra i problemi della figlia adolescente, le bizze di un attore americano goffo ed a tratti patetico, e la ricerca di una serenità interiore che sembra latitare. Dodicesimo capitolo del Moretti-pensiero, indubbiamente il più autobiografico dai tempi di Aprile (ma con poco o nulla da spartirvi) ed il meno compiaciuto in termini moralistici, con una protagonista alter ego del regista stesso (e non a caso Margherita è una regista) che affronta l’avvicinarsi della fine dell’anziana madre con malcelata rassegnazione, tra isterismi e riflessioni sui rapporti personali, nel tentativo di accettare l’ineluttabilità del destino che a stretto giro sta per compiersi. Moretti cambia registro ma non stile, e le novità non sono di scarso rilievo, tutt’altro. In primo luogo, come già accaduto in Habemus Papam, il protagonista non è il buon Nanni, ma un’ottima (ed a tratti eccessiva) Margherita Buy, tormentata cineasta che si divide tra il (noioso) film che cerca faticosamente di portare a compimento e le quotidiane difficoltà dei rapporti interpersonali dettati da un carattere dai tratti egocentrici e poco incline al confronto, al quale si oppone la pacata razionalità del fratello Giovanni, un Moretti insolitamente defilato e sotto le righe, completamente alieno dalla tentazione di qualsiasi filippica politichese. Ma anche un Moretti dai tratti velatamente felliniani, che ricorre a numerosi intermezzi onirici e frammenti metacinematografici che si mescolano alla quotidianità della vita di Margherita, finendo per apparire parte di essa o venendo inquadrati in flashback esistenziali figli di un passato remoto, finiti ad accavallarsi tra lo scorrere del tempo. “Fai qualcosa di diverso” sussurra Giovanni alla sorella, all’interno di uno di questi segmenti. E Moretti qualcosa lo fa davvero, proseguendo un’analisi intrinseca ai nuclei famigliari iniziata con La stanza del figlio (2001) dal quale ricalca a malapena il plot, inteso unicamente come concetto di dramma famigliare, ma lasciando sullo sfondo il tema portante e concentrandosi sulla possibilità di accettare, razionalizzando il tutto, l’imminenza della perdita di un genitore. Moretti non fa un film di dolore ma sul dolore (soprattutto il suo), inteso come esperienza di vita ineludibile, dimenticando volutamente il gusto per la lacrima facile e strappando qua e là anche qualche risata, soprattutto grazie alla presenza dell’ingombrante Barry Haggins, sorta di cialtrone hollywoodiano alle dipendenze di Margherita interpretato da uno sfizioso John Turturro; l’esposizione dei fatti, inoltre, non scade quasi mai nel patetismo, e man mano il nucleo sembra prepararsi all’imminenza dell’evento. Sembra, poiché per natura il concetto di accettazione da parte di un figlio della morte della propria madre resta pressoché improbabile, come dimostra la fragilità di Margherita, alla disperata ricerca di “quell’essere in sé, più grande di sé, per aiutarla a morire dolcemente”, parafrasando magari le parole di Celine, che sembrano descrivere appieno il travaglio affrontato da chi è costretto ad assistere al dolore altrui, schiavo solamente della propria impotenza. E la stessa interpretazione di Moretti, tutta “in levare”, rende alla perfezione l’idea, dimostrando con quanta e quale delicatezza l’autore cerchi di rendere partecipe il pubblico, attraverso la consueta introspezione personale che mai come in questa situazione rappresenta la quintessenza autobiografica da parte del regista romano ma altoatesino di nascita. Senza sbavature da un punto di vista registico, Mia madre viene supportato dalla ottima direzione degli attori: la Buy si cuce addosso il film, a tratti strepita e sembra sul punto di tracimare ma finisce per ritrovare quasi sempre la misura, Nanni non sbaglia nulla dimostrandosi perfetto nel ruolo del premuroso fratello, mentre la maschera di Turturro, sempre in bilico tra un divismo sgangherato e la buffoneria salace di un attore in realtà simpaticamente bugiardo ed irrealizzato, aggiunge un tocco di sana guasconeria all’insieme. Senza lungaggini, con una Roma grigia di giorno e luminosa di notte, con interventi musicali ridotti ai minimi termini, il film si chiude con una duplice riflessione: la prima è indotta dai ricordi degli ex alunni che giungono al capezzale della professoressa, dimostrando quanto la morte possa solamente incidere sui corpi degli esseri umani, senza essere in grado di inficiare i ricordi nelle persone che continueranno ad apprezzarci, mentre la seconda proviene direttamente dalla madre morente, la quale dichiara di pensare “ Al domani”, abbracciando idealmente i propri cari con un insegnamento di vita che si erge come lenitivo morale, unica possibilità di sopravvivenza intravista nell’iniziare il faticoso percorso dell’elaborazione del lutto. Può sembrare una soluzione per andare avanti, ma in realtà soluzione non è. E’ un obbligo.
Recensione di Fabrizio ‘82