Maurizio Maggiani. I figli della repubblica
Feltrinelli, 2104. 64 pag. 8 euro
In quarta di copertina si legge che Maggiani ha una predilezione per l’oralità.
Tralasciando di approfondire l’argomento e, forse soprattutto, la qualità della frase (può sembrare un approfondimento sulle sue preferenze sessuali), non si capisce il motivo per cui, visto che il volumetto in questione è più meno la trascrizione di una spettacolo teatrale, invece di un libro non si sia confezionato un cd o, meglio ancora, un dvd. Non so, probabilmente è soltanto uno dei soliti misteri dell’editoria che non sa più che pesci prendere e prova con qualsiasi esca.
Questa sorta di panphlet non ha grandi attrattive, né contenutistiche né stilistiche.
Reitera infinite volte un “beati noi” (ovviamente riferendosi alla generazione di Maggiani) e poi, quando ne elenca i motivi scivola sullo stesso terreno del “Dizionario delle cose perdute” di Guccini: un inutile e pretestuoso elenco che risulta evocativo e interessante quanto un catalogo del Postal Market di trent’anni fa.
Se l’intento era quello di intercettare le simpatie dei lettori/ascoltatori più o meno coetanei, (devo confessare che tra me e Maggiani non corre moltissima differenza d’età) devo dire che con me non ci è riuscito. Se invece l’intento fosse stato quello di incuriosire qualcuno di più giovane, penso che un trentenne, al ventesimo “beati noi”, magari perché la mamma metteva lo stracchino nel panino da portare a scuola (giuro che non è una mia invenzione, è testuale) si sia ampiamente pentito di aver speso otto euro per un libretto del genere.
Se dovessi dare un ‘interpretazione a questo testo, e lo faccio soltanto perché da uno scrive recensioni ci si aspetta anche un po’ di questa attività, tenderei a riassumere il sentimento di Maggiani con un: “beati noi che non avevamo nulla e abbiamo dovuto conquistarci tutto”.
Esattamente la stessa frase che ogni generazione ben frollata ha ripetuto a quella che la seguiva.
Mi sono mancate molto “Questa casa non è un albergo” e “Qui una volta era tutta campagna”, ma anche un bel “Non ci sono più le mezze stagioni” non avrebbe sfigurato.
La cosa peggiore di tutta questa operazione commerciale (ogni libro edito lo è, ma questa ho l’impressione che lo sia in modo un pochino più spinta delle atre) è che Maggiani sa scrivere benissimo e in modo molto convincente: perché sprecare in questo modo un talento così grande?
William Mc Ilvanney. Il caso Tony Veitch
Feltrinelli, 2014. 288 pag. 14 euro
Traduzione Alfredo Colitto
Non ho mai pensato che i gialli fossero letteratura di serie B, forse è per questo che mi ostino a leggerli anche dopo innumerevoli e brucianti delusioni. Per fortuna, a volte capita di imbattersi in testi che riescono a riaccendere la speranza. “Il caso Tony Veitch” è senza dubbio uno di questi.
E’ probabile che la qualità letteraria di questo romanzo derivi anche dal fatto di essere stato scritto molti anni fa (la prima edizione inglese è del 1983), quando ancora si scriveva e si pubblicava con un occhio ancora parzialmente attento alla qualità della scrittura e non solo, come accade oggi (e neppure sempre) alla tenuta stagna della trama. Mc Ilvanney ha certamente scritto un poliziesco, ma la profondità e l’acume della sua scrittura, il suo approccio ai temi non confinati al noir e l’andatura della sua narrazione vanno ben oltre gli steccati che il genere sembra essersi autoimposto.
In molti brani si ha la sensazione molto netta che il plot sia funzionale alla sua voglia/necessità/ urgenza di esprimere concetti e riflessioni che esulano dalle esigenze della trama stessa e che quest’ultima sia poco più di un pretesto per esplicitarli. Questo, per arrivarci è sufficiente riflettere soltanto per un momento, è esattamente quello che ha fatto evolvere la narrativa: da storie inventate e tramandate oralmente ai più alti vertici (ognuno scelga i propri) della letteratura.
In diverse occasioni Mc Ilvanney sfiora l’aforistico, pronto a confezionare la frase che colpisce ma che a volte sembra fine a se stessa, ma se si torna indietro nella lettura si percepisce chiaramente come lo svilupparsi degli eventi all’interno del romanzo, e di conseguenza il modo in cui la narrazione li illustra, siano forgiati per essere indirizzati verso il punto esatto in cui quella frase, quella riflessione o quella battuta di dialogo siano necessari e conseguenti, quasi inevitabili.
La lettura di questo romanzo può portare a tre atteggiamenti diversi, due opposti e uno che li abbraccia entrambi. Il primo può essere quello di percepire lo scorrere della narrazione come un intervallo tra le cesellate frasi di cui parlavo poco fa e il secondo, esattamente contrario, può essere quello di seguire la vicenda poliziesca e di percepire le parentesi letterarie come un inutile intralcio. Quel che è certo è che, in entrambi i casi, si trarrà piacere dalla lettura.
Se si riuscisse ad apprezzare entrambi i versanti narrativi, e questo è il terzo atteggiamento possibile, la lettura non sarà solo piacevolissimo intrattenimento, ma lascerà in bocca il sapore di un’esperienza formativa, come solo i grandi romanzi riescono a fare. Io ho avuto questa fortuna e spero possa accadere a tutti i lettori di questo testo di Mc Ilvanney.
Nasser Hakan. La rete a maglie larghe
TEA, 2014 (Guanda 2009), 252 pag. 9 euro
Traduzione Carmen Giorgetti Cima
A fare da perfetto contraltare al romanzo di Mc Ilvanney c’è questo giallo tendente all’ocra dissenteria di Nasser Hakan che è ben oltre i limiti della decenza. In questo testo, la “storia” è l’unica cosa che conta e, a peggiorare le cose, è inevitabile constatare quanto sia mal raccontata.
Per tutto il romanzo il poliziotto incaricato delle indagini non da segni di vita interiore se non per sperare che l’inchiesta finisca in tempo utile per permettergli di andare in vacanza rispettando le prenotazioni fatte. Questo, in sé, non sarebbe neppure un punto debole. Potrebbe addirittura essere un approccio originale, fornendo una nuova lettura delle motivazione delle persone che indagano e, quasi automaticamente, gettare una luce nuova e dissacrante su un infinito numero di romanzi basati sull’affannosa ricerca della verità e della giustizia. Il guaio è che fare questo passo in più sembra non essere nelle capacità dell’autore.
Il poliziotto che deve andare in vacanza sembra indagare (ma anche vivere) sotto costante effetto di funghi allucinogeni: E’ svanito, lunatico e supponente, ma senza che questo riesca a coinvolgere emotivamente il lettore, lasciandolo estraneo come un tizio qualsiasi incontrato sull’autobus e mai più rivisto. Il soggetto in questione, ad intervalli più o meno regolari, si assenta per seguire intuizioni o piste di cui lo sventurato lettore non è messo a conoscenza e, tantomeno, possa immaginare dove conducano.
Tutto il lavoro di questa indagine, che è esattamente quanto vorrebbero leggere gli appassionati del genere, è semplicemente non scritto, sottratto ai lettori con una scelta inspiegabile.
Poi, quando finalmente il caso è risolto e la vacanza è stata salvata appena in tempo, mentre un taxi lo sta portando all’aeroporto, il poliziotto riassume al suo vice dov’è stato per tutto il tempo in cui non ci è stato concesso di seguirlo, cos’ha scoperto e attraverso quali percorsi è riuscito a capire tutto: una sorta di Bignamino dell’indagine. Tutto il resto è riempitivo, fuffa, pagine scritte soltanto per riempire lo spazio tra la prima e la quarta di copertina.
Se davvero questo romanzo ha venduto tutte le copie che la copertina dichiara, vuol dire che siamo messi davvero male. Malissimo.
Alicia Gimenez Bartlett. Vita sentimentale di un camionista.
Sellerio, 2004. 28 pag. 14 euro
Traduzione Maria Nicola
Apprezzo Alicia Gimenez Bartlett per la serie che ha per protagonista Pedra Delicado, una poliziotta di Barcellona, il cui nome è già un piccolo capolavoro, geniale quasi come Marilyn Manson, ma questo romanzo è veramente noioso e inutile. Il protagonista è un camionista che ha solo due interessi: stare in strada a guidare e avere il maggior numero possibile di rapporti sessuali.
Per le strade da percorrere non ha preferenze, per i rapporti sessuali l’unica discriminante è che chi riceve le sue attenzioni, chiamiamole così, debba essere una donna. In fondo è già qualcosa, c’è anche chi non fa caso a questi dettagli. Nel titolo, più che di “vita sentimentale” sarebbe stato opportuno parlare di “vita inguinale”, ma forse si sarebbe perso qualche lettore ipersensibile alla crudezza dei termini. Purtroppo nel romanzo non c’è molto altro. A tenere parzialmente in piedi questo testo insapore viene in soccorso la scrittura sempre misurata e asciutta, ma nulla di più, e a indebolirlo concorrono la banalità delle vicende e una sorta di scontatissima “morale”.
Gli esempi più evidenti della scarsa immaginazione dell’autrice sono parecchi: l’attaccamento del protagonista alla sola donna che sembra non aver troppo bisogno o voglia di lui, il racconto (credo per la milionesima volta da quando esiste il divorzio) del disagio della separazione e delle devastanti domeniche in cui, perduta la casa, non si sa dove portare i figli. Oppure il tentato suicidio della ragazza sedotta e abbandonata e del vigliacco machismo di certi uomini, la desolazione dei bordelli sulla strada e molti altri clichè che via via il lettore è chiamato a sopportare.
Il camionista, già di suo, con le foto delle donne nude in cabina, le madonnine appese al retrovisore e le luci su camion che sembrano il carro della sagra della Madonna delle Grazie, è quasi un clichè, c’era proprio bisogno di ribadirlo?
Fabio Bartolomei. Lezioni in paradiso
Edizioni E/O, 2104, 144 pag. 15 euro
Da “Giulia 1300 e altri miracoli” a “We are family”, passando per “La banda degli invisibili”, sono sempre stato un accanito tifoso di Fabio Bartolomei, ma stavolta mi ha fregato.
Non gliene voglio, un passo falso può capitare a tutti, però ci sono rimasto male. E’ stato come acquistare il biglietto per una partita della squadra del cuore, entrare nello stadio e scoprire che i giocatori migliori sono stati ceduti durante la notte.
Eppure l’inizio del romanzo è composto da un brano di bellezza cristallina, quasi folgorante. La scena della ragazza che sta per suicidarsi gettandosi dal terrazzo è una scena in cui lirismo e realismo si fondono alla perfezione, originando un brano davvero degno di nota Sono pagine che, per quel poco che capisco di letteratura, mi sembrano vicine alla perfezione, una meraviglia.
Ma subito dopo, con la caduta della ragazza, tutto cambia e si viene proiettati in un mondo che, nella testa di Bartolomei, immagino avrebbe dovuto essere la metafora di qualcosa che non ho capito. Il racconto si sfilaccia, si va a sbattere contro personaggi stereotipati e una vicenda che l’autore non riesce a farci percepire credibile neppure dopo la sottoscrizione di un abbonamento ad un patto di finzione full optional.
Il direttore di giornale “protetto” dalla protagonista, che nel frattempo “ha trovato lavoro” come angelo custode, è un santino, oleografico e al contrario, che mi sarei volentieri risparmiato. Ma non è una questione di particolari personaggi e situazioni a rendere il romanzo scarsamente godibile, è un po’ tutto l’insieme a mostrare falle e a stare insieme con l’attaccatutto.
A volte sembra che, non sapendo bene dove andare a parare, Bartolomei abbia messo sulla pagina la prima idea che gli sia sembrata appena sufficientemente buona per proseguire e l’abbia sviluppata alla “bell’e meglio”, alla “come me viene me viene”.
Rivedendo a ritroso la produzione di Bartolomei, sembra che essa vada sempre più nella direzione dell’irreale, dell’etereo, dello scarso ancoraggio alla realtà, e ho la netta impressione che questo non giovi alla riuscita dei suoi romanzi. Come ogni parola scritta o detta su questi argomenti, questa mia sensazione è frutto di gusti, inclinazioni personali, esperienze ecc. ecc. e non ha pretese di oggettività, diciamo che potrebbe essere letta (se Bartolomei mai la leggerà) come un piccolo, umile consiglio.
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Piccola appendice, che vale per questa recensione come per altre pubblicate in questo numero e nei precedenti. In questa rubrica l’ho già scritto alcune volte: è molto presuntuoso da parte di chiunque mettersi a giudicare, valutare e interpretare il lavoro di uno scrittore, si corre il rischio di essere supponenti, inutilmente caustici o superficialmente apologetici. Nessun titolo di studio o iscrizione all’albo autorizza uno come me (e molti altri) a scrivere recensioni di romanzi, credo che la sola cosa importante sia farlo senza interessi personali e/o preconcetti. Qualcuno mi ha scritto che sono “cattivo”, altri che “non mi va bene un cazzo” (testuali entrambi) e molte case editrici, anzi, tutte, avendo confuso il significato della parola recensione con due completamente diverse, pubblicità gratuita, hanno da tempo smesso di inviarmi i loro libri.
Parentesi: meglio così, me li scelgo e me li compro.
A parte questa forse inutile divagazione rimane un fatto incontrovertibile: chi legge una recensione ha interesse a sapere che cosa pensa chi l’ha scritta. Forse ha verificato che le sue predilezioni o impressioni hanno punti in comune con chi la scrive, o forse, al contrario, ha capito che il recensore ha gusti opposti ai suoi e si regola di conseguenza, ma dall’interesse non si scappa, altrimenti occuperebbe diversamente il proprio tempo, conosco centinaia di modi molto più divertenti.
Alla luce di questa banale constatazione, cercherò di continuare a scrivere i miei commenti nel modo più onesto possibile, senza edulcorare o acidificare, non credo di poter far altro. Chi apprezza le recensioni inutili, quelle che per quattro quinti riassumono la trama e per il restante spazio a disposizione affastellano aggettivi di maniera, cenni biografici sull’autore e banalità varie, non hanno che l’imbarazzo della scelta: riviste e quotidiani ne sono pieni.
Un’ultima cosa, una piccola richiesta. Chi mi scrive commenti “in privato” potrebbe farlo postando i commenti nello spazio a loro dedicato, alla fine di “Macchie d’inchiostro”?
Mettere in comune pareri e punti di vista non è mai una cattiva idea.
Grazie per l’attenzione.
Daniele Borghi