Difficile aggiungere qualcosa di significativo rispetto alla breve, ma straordinaria, carriera di Demetrio Stratos. A distanza di trentacinque anni dalla scomparsa dell’artista che maggiormente ha influenzato gli studi sulla vocalità umana, le testimonianze impresse tra i solchi del vinile di lavori come Metrodora o Cantare la voce rappresentano ancora l’eredità di una fase storico-culturale irripetibile nella ricerca musicale italiana, nonché il tramonto di una generazione votata alla sperimentazione ed alla crescita personale squisitamente estranea alla realtà canora contemporanea. Forse la parabola unica nel suo genere di Demetrio diviene assai più comprensibile se raccontata dall’epilogo. Da quel 14 giugno 1979, quando 60.000 persone s’erano date appuntamento all’Arena Civica di Milano per un concerto-evento, con l’intento dichiarato di raccogliere i fondi necessari per permettere a Demetrio di curarsi, dall’altra parte del mondo, precisamente a New York, nel tentativo estremo di resistere alla terribile aplasia midollare che l’aveva colpito un paio di mesi prima. All’evento non manca (quasi) nessuno: ci sono gli Area (ovviamente), c’è il Banco, c’è Branduardi, c’è Eugenio Finardi. Ma quella sera, purtroppo, a non esserci più, è proprio Demetrio, che se n’è andato la notte precedente, perché il suo fisico non ha retto. Ecco che il concerto programmato diventa un’orazione funebre di massa, l’epitaffio di una generazione. Lo sa bene quell’uomo sconsolato che osserva “l’evento” e che risponde al nome di Gianni Sassi. Lui, l’art director più geniale ed importante della sperimentazione figlia dei mitici seventies, ha già capito che quella sera rappresenterà uno spartiacque con tutto cio’ che seguirà. E che un’epoca si è irrimediabilmente chiusa. Demetrio Stratos nacque ad Alessandria d’Egitto il 22 aprile del 1945, da genitori greci. Stratos, contrariamente a quanto creduto, era il nome di battesimo, nella sua italianizzazione di Efstratios. L’arrivo in Italia e gli studi abbozzati in architettura, preludono all’ingresso nel gruppo beat dei Ribelli ed al successo commerciale dell’hit Pugni chiusi. Ma le sonorità stile Ribelli stanno per forza di cose strette a Stratos, cosicché l’incontro con il manager Gianni Sassi, in procinto di fondare una propria etichetta musicale diversa in tutto e per tutto dalle altre, si rivela decisivo. Per entrambi. Nasce la Cramps Records, ma soprattutto, nascono gli Area. Sotto la supervisione di Sassi (alias Frankenstein), questo straordinario ensemble di musicisti (Stratos appunto, ma anche Capiozzo, Fariselli, Tofani, Djivas e più tardi Ares Tavolazzi) mette in fila uno dopo l’altro una manciata di dischi memorabili, un’eccezione nel panorama musicale italiano dominato dal cantautorato o dal nascente progressive. Gli Area, infatti, difficilmente possono essere identificati con un movimento ben preciso. Troppo complessi per essere annoverabili al pop-rock, dentro al filone prog ma con la prerogativa di raggiungere risultati incredibilmente concreti nell’ambito della difficoltà di una proposta originale ed innovativa, grazie alla fusione di elementi sonori che lambiscono il pop, mescolati a melodie dal sapore etnico di derivazione mittleuropea, con sprazzi di fusion e jazz d’avanguardia, il tutto rifinito da una voce, quella di Demetrio, votata alla sperimentazione continua e capace di esibire dei tecnicismi sconosciuti a qualsiasi altro vocalist. Gli Area non sfornano un disco uguale ad un altro, lo stile è a proprio modo unico ma mai ripetitivo. Lasciano sbigottiti, a distanza di anni, le ritmiche policomposte di Luglio, Agosto, Settembre (nero) dall’esordio di Arbeit macht frei, col canto quasi a cappella di Demetrio che succede al recitato in arabo che apre brano e disco. Così Caution Radiation Area viene presentato dall’incredibile Cometa rossa, preghiera greca declamata da Stratos che in estensione sembra anticipare i futuri esperimenti sulla voce; anche all’interno della ballata Gioia e rivoluzione, il cantante trova il tempo di esibirsi in alcuni vocalizzi che difficilmente s’incontrano nell’incipit di un brano marcatamente pop. Ma anche gli Area, col tempo, iniziano ad andare stretti all’interprete italo-greco. L’interesse di Stratos per la voce diviene primario, il suo essere poliglotta lo aiuta ad assorbire tecniche e culture distanti dalla canzone fine a se stessa, così lo studio della “voce umana” da utilizzare come strumento diventa la stella polare del percorso artistico di Demetrio. Tra sonorità mutuate da sciamani e sacerdoti dell’antica Grecia, mantra orientali e perfino gorgheggi di neonati, iniziano a prendere forma le straordinarie esercitazioni che porteranno alla pubblicazione di Metrodora (1976) e Cantare la voce (1978). Si tratta di lavori di difficile assimilazione, destinate a studiosi di etnomusicologia più che ai fruitori della musica tradizionale, ovviamente di scarso ritorno commerciale: ma Stratos, coadiuvato dall’immancabile Sassi, era impaziente esclusivamente di portare a compimento i propri esperimenti sulle potenzialità della voce umana, utilizzata come strumento. Quanto proposito non ha eguali nel campo musicale italiano: i limiti umanamente concepiti vengono valicati attraverso una sperimentazione che, affinata nel tempo, permette a Stratos di prodursi in diplofonie, suddividendo all’interno della stessa emissione di voce due suoni ben distinti, formati da un’armonica alla quale si affianca una seconda sonorità vettoriale. Le incredibili doti possedute e la maniacale esercitazione portano Stratos a raggiungere i 7000 Hertz in estensione orizzontale, laddove l’essere umano solitamente riesce a spaziare tra i 300 ed il 4000. Gli appassionati restano ammaliati ed al tempo stesso ammutoliti dinanzi alle triplofonie che diventano anche quadrifonie, alle timbriche che schizzano dai bassi agli alti e viceversa, magari reinterpretando filastrocche per bambini o producendosi in jodel o ancora misurandosi con brani tratti dal teatro della crudeltà di Artaud. Da fantascienza, inoltre, l’esperimento di O tziziras o mitziras, scioglilingua ellenico consistente nella ripetizione ossessiva di ventun parole da effettuare in tre secondi e mezzo, inserito poi nella registrazione del Concerto all’Elfo. Accanto allo sperimentatore Stratos, è d’obbligo ricordare l’impegno civile profuso nei confronti della causa libanese con la Cantata rossa per Taal el Zaatar assieme a Gaetano Liguori e Giulio Stocchi, o la partecipazione al Rock and Roll exhibition con gli amici Pagani e Tofani, o ancora l’incursione nella pièce teatrale Le Milleluna, ideata da Nanni Balestrini per la danzatrice Valeria Magli. Impossibile dimenticare, poi, i Mesostics di John Cage da Stratos interpretati a New York, coronamento della carriera di uno sperimentatore dimostratosi in grado di orchestrare con la sola voce quanto di norma effettuato da strumenti e campionatori, assoluto punto di riferimento di un’epoca che lo ha apprezzato e riconosciuto come Maestro della voce, locuzione con la quale la PFM lo ha omaggiato nel disco Suonare suonare e che rende merito ad uno dei più grandi interpreti della musica e dello studio sulla voce dell’intero novecento. Il documentario La Voce Stratos, edito da Feltrinelli e curato da Rai Trade, ricostruisce bene il periodo in esame e permette di ammirare le acrobazie vocali di Demetrio, ancora in grado di stupire ed impressionare a distanza di tanti anni. La carriera interrottasi a soli 34 anni proietta Demetrio Stratos nel firmamento delle stelle spentesi troppo in fretta, ma l’abnegazione dimostrata nei confronti della materia affrontata e lo scrupolo filologico profuso nello studio della vocalità non lasciano adito a dubbi: Stratos è storicamente riconosciuto come il più grande sperimentatore vocale moderno, in grado di raggiungere risultati assoluti ed ulteriormente perfettibili, tanto da aver suscitato l’interesse del CNR di Padova, affascinato dalle qualità di questo immenso artista che troppo presto ha dovuto abbandonare le scene, rappresentando l’ultimo baluardo di una cultura italica in seguito orientata quasi esclusivamente all’apparenza e mai alla sostanza. Lo sapeva bene Gianni Sassi, quel 14 giugno di trentacinque anni fa. Sentiva il funerale di una generazione prendere forma davanti ai propri occhi. Ma non poteva sapere, nemmeno lui che oggi non c’è più, che nell’imminente ricorrenza del trentacinquennale dalla scomparsa di Demetrio, il destino avrebbe chiamato a sé anche Francesco Di Giacomo. Ed il concetto di Voce, nel panorama della musica italiana, probabilmente vedeva scorrere i titoli di coda. Non ce ne vogliano i discografici attuali. Se ne facciano una ragione.
Recensione di Fabrizio ‘82