Dic 182013
 

Venere in Pelliccia, di Roman Polanski, con Emanuelle Seigner, Mathieu Amalric;
Sceneggiatura: Roman Polanski, David Ives, Musiche: Alexandre Desplat. Francia/Polonia, 2013, 100 min.

★★★★☆

Il grande regista Roman Polanski ha dato sempre negli interni il meglio di sé stesso; si pensi al claustrofobico “Rosemary’s Baby”, che si svolgeva interamente nel gotico Dakota Building di New York, famoso perché davanti ad ad esso Mark Chapman fece fuoco contro John Lennon, dove, in un clima che inizialmente appariva da telenovela, una giovane donna incinta scopriva di essere vittima della cospirazione di una terribile setta satanica, che vedeva coinvolto anche il marito, al fine di farle partorire il piccolo figlio del Demonio. Si pensi, inoltre, a “Repulsion”, allucinante racconto della follia omicida di una donna, tutto giocato nell’angoscioso, limitato spazio di un mini appartamento, con risultati di geniale tensione, o “L’inquilino del terzo piano”, cupo, ossessivo, spettrale, dove un impiegato, preso possesso di una appartamento già abitato da una ragazza suicida, subendo le persecuzioni dei condomini, finiva in una terribile morsa di angoscia psichica, identificandosi sempre di più con la ragazza.
Il grande regista polacco si sentì da sempre immerso in atmosfere torbide, inquietanti, criptiche: per la sua adolescenza, quando fuggì miracolosamente alla persecuzione antisemita, oltre che per le tragiche vicende che videro coinvolta la giovane moglie Sharon Tate, barbaramente uccisa dalla setta di Charles Manson; a seguito della strage di Bel Air realizzò una cupa, primordiale e violenta versione del “Machbeth” Shakespeariano, ove si dimostrò influenzato da quei tragici eventi, al punto da ricostruire in una sequenza quasi fedelmente l’omicidio della moglie, mentre in “Chinatown” il senso di mistero chandleriano, l’indefinibile, l’inconoscibile, trovavano una plastica, riuscitissima realizzazione filmica.
Con “Venere in Pelliccia”, l’Autore ci fornisce un altro mirabile esempio del suo geniale cinema, realizzando un’opera che si interroga sul gioco della seduzione, mettendone in risalto le contraddizioni, le luci e le ombre. Dopo la prova generale, due anni fa, del pur ottimo “Carnage”, gioco al massacro di due coppie borghesi di Manhattan, elegante ma lineare, egli ha voluto affrontare la complessità ed i recessi dell’animo umano nell’incontro scontro di due caratteri, di due vite psichiche, realizzando, attraverso un implacabile crescendo drammaturgico, una affascinante, contorta, spietata seduta di psicoanalisi.
Polanski, adattando per lo schermo la piece di David Ives affronta la materia incandescende dello scandaloso romanzo erotico di Von Sacher Masoch con grande perizia realizzando un film claustrofobico, sensuale, plumbeo, dall’avvincente impianto teatrale, che viene recepito dallo spettatore come un vero thriller dell’anima. I dialoghi sono mirabili, accesi, la realtà e la finzione scenica si accavallano, si sommano, si confondono in un gioco delle parti che diventa teatro della crudeltà e dell’assurdo, che lo stesso Antonin Artaud non avrebbe saputo tratteggiare meglio.
Thomas (Mathieu Amalric) è un regista teatrale che sta cercando l’attrice giusta per il ruolo di Vanda nel suo adattamento scenico della “Venere in Pelliccia” di Sacher Masoch. Fuori tempo massimo, a teatro già chiuso, si presenta Vanda (una intensa, straordinaria Emmanuelle Seigner) , un’attricetta scarmigliata, che, a parte l’omonimia, sembra assolutamente fuori ruolo.
Ma la donna, in possesso di un’animalesca sensualità, e di una grande capacità affabulatrice, lentamente riesce a convincere il regista che è lei la Vanda che lui cercava. Lentamente, inesorabilmente, Thomas, nel realizzare l’audizione della donna, viene attratto in una rete ambigua e perversa, in un gioco a due spietato e rivelatore dei veri rapporti di forza tra i due personaggi.
E come sempre, alternando toni da commedia a quelli drammatici, Polanski è assolutamente geniale nel descrivere la trasformazione della donna, che da sottomessa diventa dominatrice, sino ad un finale paradossale ed amaro, dove viene messa in risalto la assoluta degradazione fisica e psichica che il regista subisce, attonito e terrorizzato, dove è impossibile non rilevare l’identificazione dell’Autore con il protagonista del film, che addirittura fisicamente è molto simile a Polanski.
Il cinema polanskiano ha sempre insistito sulla violenza e sulla depravazione psicofisica che si nasconde dietro l’assoluta rispettabilità. In più, in quest’opera ci mette una accurata analisi dei meccanismi psicoanalitici del sadomasochismo, attraverso uno sguardo profondo della psiche dei due protagonisti, in uno scambio di battute senza fiato, dove i ruoli si ribaltano, in un gioco di specchi affascinante e perverso, che lascia attonito lo stesso spettatore, che si chiede alla fine quale sia il senso compiuto di un’opera che lascia molte più domande di quanto fornisca risposte. Un viaggio affascinante nella psiche umana, nel detto e nel non detto di ciascuno di noi, attraverso uno specchio scuro che riflette l’angoscia del vivere, la tenebra che aleggia nella nostra vita psichica.

Recensione di Dark Rider

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