Pietà, di Kim Ki Duk, con Jo Min-Soo, Lee Jun-Jing. Corea del Sud, 2012, Durata: 104 min.
Questo film shock di Kim Ki Duk ha vinto la sessantanovesima rassegna cinematografica di Venezia.
Da anni noto nei circuiti del cinema autoriale europeo, il regista coreano è già stato autore del lirico, meditativo “Primavera, Estate, Autunno, Inverno…e ancora Primavera”, in cui un bambino allevato da un monaco buddista percorre nella crescita i drammatici sentieri della vita, arrivando ad uccidere per poi tornare a meditare nell’eremo originario, facendosi anch’esso monaco. Kim Ki Duk è anche l’autore del bellissimo, sconcertante “Ferro 3 – La casa vuota”, ove l’amore tra due outsider, occupatori di case altrui in assenza degli abitanti, è rappresentato oltre ogni immaginazione, tra realismo ed immaginario fantastico, nonché, in precedenza, dei violentissimi Bad Guy e Crocodile, nei quali con selvaggia crudezza, veniva rappresentata la vita dei reietti della società.
Attravrso la narrazione della vita di un usuraio, recuperatore di crediti, con quest’opera estrema e sorprendente egli vuole descrivere la violenza dei rapporti sociali nella Corea del Sud di oggi, vista come essenzialmente caratterizzata da elementi di sesso e morte, realizzando, al di là della simbologia estremamente evidente, un’aspra parabola contro il capitalismo selvaggio, dove il potere dei soldi determina la vita e la morte delle persone.
La trama è semplice: nella zona industriale di Seul, in un quartiere operaio fatiscente e degradato (ove effettivamente il regista visse per quindici anni), il trentenne Kang Do recupera i crediti per conto di un usuraio mafioso, esercitando sistematicamente la violenza ed il ricatto, spingendosi anche a storpiare i debitori al fine di incassare l’assicurazione. Un giorno gli si avvicina una donna di mezz’età, ancora bella, che asserisce di essere la madre che l’aveva abbandonato dopo la sua nascita, costringendolo ad una vita di solitudine. Egli, dapprima reagisce con sdegno ed arriva persino a violentarla, successivamente accetta la sua presenza ed inizia a non poterne fare più a meno, avviando, lentamente, un tragico percorso di redenzione, che arriverà al punto di non ritorno quando la donna si ucciderà davanti ai suoi occhi, consumando una terribile vendetta: legarlo a sé e poi abbandonarlo per sempre nella disperazione. Infatti, il giovane non reggerà e si infliggerà una terribile morte.
L’opera è dura e violenta, ai limiti della sostenibilità: Kim Ki Duk continua il suo percorso antropologico tra gli esseri umani. I suoi due personaggi vagano come anime in pena in un ambiente disumano e irrimediabilmente degradato, fatto di grattacieli che schiacciano piccole botteghe, di strade maleodoranti ed insidiose, ove vige la legge del danaro vista come prevaricazione del forte sul debole.
L’ambizione del regista coreano è alta: coniugare allegoricamente la violenza sociale generata dal turbocapitalismo con l’aspirazione ad una dimensione spirituale che recuperi il senso della vita e dell’umanità. Ma i meccanismi sono troppo insistiti, la violenza è fin troppo evidenziata: quello che emerge dalla narrazione è un forte, ma didascalico apologo morale che finisce per ridurre l’impatto emotivo del film, che si dipana in una certa prevedibilità.
Ma le immagini che portano alla tragica conclusione sono di grande forza, il recupero di una straziante coscienza dell’uomo e la conseguente disperazione per la nuova perdita della presunta madre risulta credibile ed efficace, l’immagine della ricomposizione nella morte del nucleo familiare a lui sconosciuto, cui si aggiunge un presunto fratello suicidatosi per i debiti, è poeticamente intensa, e terribili e raggelanti sono le sequenze che descrivono la sua autopunizione.
La poetica del cinema di Kim Ki Duk trova la sua ennesima conferma: viviamo in un mondo spietato, in cui gli uomini e le donne si aggirano come zombies privi di anima, dove i valori imperanti sono costituiti dal danaro, dal sesso e dalla prevaricazione violenta, mentre la solidarietà umana è scomparsa, e gli umili sono destinati a soccombere. Potrebbe forse sopravvivere una speranza: essa passa attraverso il recupero doloroso di una spiritualità, di un senso religioso dell’esistenza, ma il pessimismo dell’Autore sottolinea comunque la ciclicità dei comportamenti umani, considerando abiezione e redenzione come elementi della vita stessa, destinati a rincorrersi ed a non concludersi mai, in una sorta di eterno ritorno. Il tutto, in questo suo ultimo film, condito con un tono a volte melodrammatico e volutamente sopra le righe, cui si contrappone una certa dose di ironia.
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