AIDA, Roma, Teatro dell’Opera 20 gennaio 2009
Non siete tratti in inganno, nessuna retrospettiva sui Queen o sui fratelli Marx, qui si tratta di Verdi, musica con la M maiuscola in un contesto con la O maiuscola , o presunta tale.
L’Aida, una delle opere più celebri della storia, apre la stagione 2009 al teatro dell’Opera della Capitale, che non sarà La Scala o L’Arena, ma una certa valenza ancora ce l’ha.
Bei tempi, quando dall’estero ci commissionavano la scrittura di un’opera del genere, rappresentata per la prima volta nel 1871, per l’inaugurazione del canale di Suez. Un orgoglio, l’essere italiano. Pensare che alla prima di cui sopra, oltre a Verdi e Antonio Ghislanzoni autore del libretto, l’intero cast era tutto italiano. Adesso, oltre a non ricevere più richieste di collaborazioni simili se non, forse, per la sagra della porchetta di Rovaniemi, ci ritroviamo in una prima a Roma nel 2009 con regista, direttore d’orchestra e protagonista straniero. Segno dei tempi. La storia è sempre quella, Radames e Aida con altre donne , padri, faraoni , future spose e presenti guerre a frapporsi fra i due fino al tragico epilogo. La schiava etiope protagonista è impersonata da una barilotta cinese (Hui He) bianca come un cencio, completamente fuori luogo se non fosse che come da fiato ai polmoni si trasforma in un’elegante , maestosa e graffiante aquila reale che volteggia per il teatro avvolgendo in gorgheggi il luogo, dalle pellicce delle prime file ai jeans del loggione. Vicino a lei, gli altri protagonisti tendono a sottomettersi, più in volume e tecnica che in grazia.
Il regista Robert Wilson si occupa anche di scene e luci ed è un tipino decisamente all’avanguardia, viste le sue collaborazioni con musicisti del calibro di Philip Glass.Coadiuvato da Jaques Reynaud ai costumi, imposta la performance molto staticamente e minimalmente (nonché coraggiosamente, aggiungerei) ; spesso sembra di trovarsi ad una rappresentazione di teatro kabuki, prevalenza al cantato a discapito della recitazione, meglio giochi di luci che centinaia di comparse sfarzose. Ciò comporta dissenso da alcune frange del pubblico, che impone una certa riflessione : essendo la prima volta che il sottoscritto si trovava in un contesto simile, la sensazione è di contestazione a prescindere, senza appello per il contestato. Mi spiego, non si capisce la necessità di fischiare un lavoro del genere dopo solo mezz’ora di rappresentazione. Tant’è che proseguendo nell’incedere, l’Opera cresce e diventa più che gradevole. Evidentemente la modernità non è contemplata da queste parti, il ritorno di Zeffirelli ed i suoi barocchismi è da taluni invocato, esageratamente. Nella sua “ignoranza”, situazioni del genere nella musica rock non si sentono dalla svolta elettrica di Dylan !
Alla fine il trionfatore è Verdi e la sua musica, grazie anche al supporto di Daniel Oren, direttore d’orchestra ormai più che cittadino onorario italiano, che con una conduzione aggressiva, senza mai trascendere, fa onore alle partiture e riconosce il dovuto rispetto alla performance dell’orchestra, andando a stringere la mano a tutti i musicisti per ben due volte.
Ultima riflessione sui molti spettatori visti alla recita, pochi aficionados, molta sensazione di presenzialismo indipendentemente dal soggetto e qualità della serata.
Altro segno dei tempi…..
Recensione by Attilio