Dic 222010
 

Roma, Circolo degli Artisti, 11 dicembre 2010

★★★½☆
Beatrice Antolini, ovvero piccole donne crescono: ci sembra questo il sottotitolo più indicato per iniziare a raccontare come si possa maturare in soli due anni, senza perdere in freschezza ed energia, dando corpo ad una fisionomia musicale sempre più marcata ed inconfondibile. L’avevamo lasciata in un accogliente teatro di quartiere, all’epoca dell’uscita del precedente album ‘A Due’, dare vita ad un live set coinvolgente anche se ancora acerbo ed in rodaggio, la ritroviamo più determinata che mai e convinta (e convincente) della propria evoluzione e delle scelte di percorso. Anche stavolta l’occasione è l’uscita del nuovo disco, il terzo, intitolato BioY, interamente presentato al Circolo, lasciando in scaletta spazio per solo quattro brani del precedente lavoro, quasi a voler ulteriormente ribadire la saldezza delle proprie convinzioni e la consapevolezza di questo momento creativo.
Che la ragazza abbia le idee chiare e la giusta determinazione lo si capisce dalla scelta del brano d’apertura, Night SHD, sicuramente la traccia più elaborata e complessa del nuovo album: una sorta di lunga suite scandita da un ritmo contratto e sincopato sul quale il cantato dell’Antolini si insinua morbido ed inquietante al tempo stesso. Peccato che una malaugurata afonia non ci permetta di apprezzare l’evoluzione vocale di Beatrice, che su BioY risulta molto più corposa e dominante.
Si prosegue con Eastern Sun, il cui ritmo e giro di basso ci riporta ai grandissimi Mano Negra del ‘Señor Matanza’. La ritmica viene scandita dalle timbales che la novella Sheila E. percuote con una perizia ed una grinta esemplari. La scoperta del nuovo disco continua con un altro paio di brani, che proseguono l’esplorazione dell’universo passando dal Sole alla Luna; l’intermezzo di A new Room For A Quiet Life col suo incedere latin ci riporta al precedente A Due e ci sembra già di ascoltare un classico. Il viaggio nello spazio prosegue con un momento di particolare suggestione, grazie al brano Planet, per solo piano e voce che l’artista ha voluto dedicare al padre.
Dopo la malinconica title track dall’incedere reggaeggiante, ecco arrivare Venetian Hautboy, già ascoltata nella compilation Il paese è reale, totalmente impregnata di new wave fine anni settanta/inizio ottanta: provate ad immaginare Lene Lovich che canta con i Gang of Four e forse capirete di quali atmosfere si stia parlando.
Benvenuti al Funky Show, sembra annunciare la Antolini quasi a volerci preparare al brano che ha irrefrenabilmente trascinato tutti, ovvero la torrida We’re gonna live, in cui Beatrice dimostra di essere andata a scuola dal Prince di 1999, tanto per rimanere alle atmosfere eighties, e di aver imparato molto bene la lezione del geniaccio di Minneapolis. Sorride Beatrice con la sua valida band (menzione speciale per il notevole contributo del tastierista/trombettista/flicornista Enrico Pasini) e sorridendo visibilmente soddisfatta lascia momentaneamente il palco.
Per i due bis si torna al disco precedente, con due brani, Sugarise e Double J, che sembrano proposti appositamente per delineare chiaramente il passaggio da ieri ad oggi, ovvero lo snodo cruciale di un’artista che è notevolmente cresciuta di spessore e di caratura, sia come compositrice che come polistrumentista. Il passo successivo dovrà essere nella direzione di una maggiore disinvoltura sul palco ed una consapevolezza dei propri mezzi anche dal vivo. Ma si tratta di dettagli che nulla tolgono alla considerazione ed alla stima di tutto il pubblico presente nei confronti di una personalità originale ed unica nel panorama musicale nostrano.

Recensione e foto di Fabrizio

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